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Compagni di scuola

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18 Gennaio 2015

"Compagni di scuola, compagni di niente": cantava, al singolare, un giovane Antonello Venditti (ascolta) nel lontanissimo 1975, anno nel quale – guarda la coincidenza – io entravo, assieme ad altri brufolosi ragazzi del 1961 – in quarta ginnasio e cominciavo ad affrontare l'Everest del Liceo classico Galilei di Pisa. Io venivo da un paesino di campagna, dove nessuno a quattordici anni era mai entrato in un teatro per assistere ad un'opera lirica, ad un concerto o a uno spettacolo di prosa. I teatri erano in città, lontanissimi, e per noi del tutto inutili. Abitavo nelle case popolari, e sopra la televisione in cucina c'era una gondola di plastica regalata da qualcuno o acquistata (non mi ricordo) durante una gita.

All'epoca i televisori non erano slim come oggi: tra tubi catodici e valvole, lasciavano spazio a famiglie di gatti a riposo, ad altarini di Padre Pio o a più laiche gondolette barocche – come nel mio caso. Insomma, c'era spazio per rappresentarsi in scienza e coscienza per quello che si era o si voleva apparire.

In questi giorni in modo del tutto casuale sono rientrata in contattato con alcuni di essi: qualcuno ha avuto idea di ricontattare i ricontattabili, e creare una lista di Whatsapp. Ed eccomi da alcuni giorni a seguire una conversazione concitata, dove si fa riferimento a nomi che mi saltano agli occhi dopo quarant'anni di oblio. Non mi ricordo quasi niente di quelle persone: come se di quell'epoca avessi fatto una scatola di ricordi e l'avessi posizionata in soffitta, ben chiusa, con dentro le emozioni, le gioie e i dolori di un'epoca che per me fu molto impegnativa, per non dire difficile.

Fu lì che ebbi modo di sviluppare ed esercitare per la prima volta nella vita la mia coscienza politica: mentre nel paesino le famiglie dei miei compagni di classe, pur collocate a diversi punti della scala sociale, condividevano gran parte dello stile di vita e non lasciavano trasparire significative disparità di status, nella città ebbi modo di scoprire le differenze di classe. Non si trattò di una scoperta di quelle che si fanno un poco alla volta: fu un vero e proprio pugno in pieno viso. La maggior parte dei miei compagni, quelli destinati ad esercitare la leadership all'interno del gruppo (peraltro gli stessi che hanno avuto l'idea di creare la lista Whatsapp), erano figli di professionisti affermati: medici, primari ospedalieri, avvocati, docenti universitari. Vivevano in ville stratosferiche, con i cancelli che si aprivano automaticamente, con il soggiorno diverso dalla sala da pranzo, e la cucina destinata non a mangiare, ma a preparare i cibi. E chi preparava i cibi era una cameriera, non la mamma del mio compagno.

Sono stata poche volte nelle case dei miei compagni di scuola, ma abbastanza per capire che tra me e loro c'era una lunga strada da percorrere per potersi incontrare. Poche volte, perché abitavo fuori città, e con gli autobus il tempo per rientrare a casa e poi tornare a Pisa avrebbe accorciato troppo il pomeriggio per fare tutti i compiti richiesti. E perché poi i compagni sarebbero dovuti venire a casa mia, nella casa popolare, e quella strada l'avrebbero misurata anche loro. Ricordo qualche caso in cui qualcuno di loro, peraltro senza farci troppo caso, ebbe modo di venire a casa mia, a studiare sul tavolo di vetro del soggiorno – quello dove non si pranzava mai, se non a Natale.

Fu allora che mi resi conto, appunto, che la lotteria sociale aveva distribuito le opportunità in modo diseguale. 

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MariaStella
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