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Sessanta

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24 Ottobre 2013

Oggi i colloqui selettivi per il servizio civile sono stati sessanta: trenta al mattino e trenta al pomeriggio. Una full immersion che mi ha visto impegnata assieme a colleghi e superiori del tutto "speciali", in grado di trascorrere in serenità oltre 10 ore senza mai un attimo di distrazione. Il tempo di un panino a pranzo, un caffè "rubato" ogni tanto – tra un colloquio e l'altro – grazie alla presenza di una efficace macchinetta a cialde strategicamente collocata nella sala dove si svolgono i colloqui, e che normalmente è adibita a sala riunioni.

Ci passano davanti sessanta vite, sessanta storie personali, tutte diverse l'una dall'altra. Alcuni ragazzi hanno viaggiato, vissuto esperienze importanti, acquisito competenze significative; altri sembrano essersi limitati a "sopravvivere", frequentando senza convinzione e senza successo corsi scolastici dai quali non hanno tratto ispirazione a dare un senso alla loro vita adulta. La maggior parte di loro si è limitata a "provare" l'esperienza di oggi, ma senza farci alcun investimento preparatorio. Qualcuno ha leggiucchiato il progetto per il quale dovrebbe lavorare; solo pochissimi sono andati oltre, documentandosi sul sito web della biblioteca, dove avrebbero potuto trovare molti altri elementi aggiuntivi. Quando ammettono di non sapere quasi nulla del motivo per cui sono lì, non risultano neppure particolarmente a disagio o in imbarazzo.

La sensazione che trasmettono è quella di non ritenere opportuno impegnarsi in qualcosa a cui si sono avvicinati per caso, e da cui si allontaneranno con la stessa casualità. Qualcuno di loro – per fortuna non tutti – troverà nell'insuccesso che tra poco sperimenteranno una prova ulteriore della indisponibilità del mondo nei loro confronti. In realtà il principale motivo per cui risulteranno respinti indietro è da attribuire in gran parte a loro stessi. Sono davvero moltissimi quelli che non hanno colto la dimensione strategica della preparazione per fare la differenza in un contesto competitivo: non si sono documentati, non hanno mostrato interesse al progetto, non hanno fatto alcun sforzo per costruire una loro "appetibilità".

E poi il registro linguistico: c'è chi parla correttamente, per fortuna nostra e del mondo. C'è invece chi usa un registro linguistico dialettale e familiare anche nei contesti ufficiali ("a me mi garba", "mi' ma'", "ir mi' fratello"), mostrando di non padroneggiare appieno l'italiano e soprattutto di non riconoscere le differenze tra situazioni formali e informali: come se esistesse un unico universo relazionale, quello della famiglia e degli amici, a cui tutto naturalmente debba essere ricondotto e uniformato.

La sera è piena di riflessioni cupe: una esperienza come questa mi ha veramente toccato corde profonde. Toccare con mano la deprivazione culturale di chi non si fa pensiero del proprio miglioramento mi turba e mi sconcerta.

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MariaStella
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Ho la fortuna di fare un lavoro che è prima di tutto una grande passione: questo mi permette di vivere una vita “intera”, tra casa e biblioteca, di cui ho piacere di condividere gli aspetti più belli su questo sito-blog. Buona lettura!

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